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EnzoDeGiorgi
DICONO DI ME
Enzo de Giorgi ha avuto sempre la bellezza come bussola orientante,  sin dai suoi esordi all’Istituto d’Arte di Lecce. I suoi percorsi in Accademia di Belle Arti lo hanno “contaminato” con tante forme espressive senza eleggere un maestro di riferimento univoco, conducendo il suo cammino attraverso sperimentazioni disparate, tenendo fede però a quella fragranza intellettuale che lo caratterizza anche adesso nell’insegnamento nel Liceo artistico di Lecce.
Enzo De Giorgi ha l’eleganza e il rispetto formale che risiede solo in chi ha le idee chiare e il talento per poterle raccontare. Non è etichettabile in una categoria estetica, semplicemente perché la sua cifra stilistica è diretta, rispettosa di un’armonia intrinseca che ne connota l’equidistanza visiva e contenutistica. “Considero la materia stessa, al pari della sua forma, parte del significato dell’opera” ed è questa profonda onestà che connota il suo ductus grafico, immaginifico e al tempo stesso riconoscibile, sognante e reale. E’ un idea di bellezza corroborata da una lunga frequentazione con la musica. La musica ha necessità di un interprete, la pittura no ed in Enzo de Giorgi la sua figurazione interpreta l’armonia, la tonalità, il colore, l’andante o il crescendo, ribaltando la scena in primo piano. Non ha ombra la sua immagine, il colore domina anche il buio come le note che non hanno peso ma puntellano il pentagramma connotandole e suggerendo un incipit ed un finale. L’artista è il narratore ma il finale non è scontato, raggiunge il rapporto interiore con l’equilibrio formale e con la consonanza del ricordo, della memoria e della poetica della armonia.

Maria Agostinacchio

De Giorgi, vent’anni di pittura sulla musica di Lolli

Quotidiano di Puglia 4 settembre 2016
di Marinilde Giannandrea


Il passato e il presente si confrontano in un dialogo serrato. Con “Ventanni dopo”, la mostra in corso negli spazi della Fondazione Palmieri a Lecce, Enzo De Giorgi guarda a quello che era e fa il punto su quello che è diventato. Le tele, realizzate nel 1996 per la sua prima personale leccese, sono accostate a nuovi lavori e hanno come motivo di fondo i testi di Claudio Lolli, il cantautore impegnato degli anni Settanta, il poeta degli anni Novanta. Una passione giovanile che si rinnova, ma che testimonia come la pittura di De Giorgi abbia avuto una sostanziale mutazione.
Più drammatici - con echi lontani di Transavanguardia e inserti di materiali diversi - i lavori del 1996 hanno un segno più duro e claustrofobico, costretto per lo più in spazi chiusi e surreali. Nelle opere del 2016 il colore si distende senza remore e i soggetti trovano il loro spazio in luoghi aperti, a volte con riferimenti al paesaggio salentino. Si potrebbe dire che è il tormento, quello giovanile, è scomparso anche perché i colori caldi, i rossi e gli aranci che De Giorgi predilige, sono assolati e palpitanti. Tuttavia anche in queste opere la malinconia e l’assenza permangono senza dichiararsi apertamente. Forse perché i suoi personaggi hanno sempre gli occhi chiusi, le prospettive sono slittanti mentre il colore solare confonde e mescola i piani della realtà.
Le citazioni alle opere del 1996 sono elementi a volte visibili e a volte più sottesi. È una rivisitazione tecnica ma soprattutto emotiva e l’omaggio che l artista fa a se stesso e a quello che è diventato è sottolineato anche dal fiore che ricorre in tutte le ultime tele. In questo senso il dialogo che si stabilisce tra passato e presente è un dialogo soprattutto esistenziale, perché nel confronto non si pongono solo questioni pittoriche, ma piuttosto si riflette sui processi e i cambiamenti.
È come ascoltare la stessa canzone – quella che ha accompagnato i desideri e i tormenti della giovinezza – dopo vent’anni. Spesso c’è il disincanto, la consapevolezza un po’ cinica della maturità, ma non per Enzo De Giorgi. Perché, al di là delle differenze di stile, la sua natura poetica e sognatrice sembra avere trovato oggi, più di allo- ra, un respiro lungo che lo porta ad architettare un mondo fiabesco e una narrazione in cui mescola piani, paesaggi, figure femminili che sembrano ninfe, masserie, campi coltivati, muretti a secco, trasferendoli in un mondo collegato alla realtà solo da un filo sottile.
E in questo guardarsi indietro, senza timore, ma con un senso di piena consapevolezza, riaffiorano ancora una volta i versi di una canzone di Lolli che nella “Giacca” scrive: «Bisogna andare, fino in fondo, in fondo a tutto in fondo a noi, in fondo agli argini del mondo, alla paura che mi fai».

“Ventanni dopo” è aperta fino al 16 settembre.
Orari: tutti i giorni dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 21.
Nelle opere di Enzo De Giorgi è racchiusa la realtà visionaria della cultura neofigurativa dell arte contemporanea. Un universo impastato con fantasie raffinate, gusto ironico dello spiazzamento, piacere mentale del gioco linguistico.

La ricerca estetica dell artista ha origini in forme legate a differenti territori dell arte (fumetto, scenografia, scultura, decorazione), mentre il suo stile affonda le radici nelle scoperte formali di autori moderni come Picasso, Matisse, Klee, e si sviluppa a contatto con il flusso delle mille combinazioni offerte dalle icone massmediali (cinema, televisione, pubblicità).

Il risultato visivo e  quello di un puzzle metalinguistico che, di quella rappresentazione classica in senso tradizionale, esprime complesse mediazioni tra realtà esteriore e verita  interiore.

Attraverso immagini liriche e giocose, l'artista racconta storie affidate allo sguardo di chi sa osservarle e capirle, storie capaci di far convivere interpretazioni diverse. Sono narrazioni costruite con lessico prezioso e ricco di sfumature, dove gli elementi della composizione sono assorbiti dalle lievi atmosfere modulate dalle gradazioni cromatiche. Tra spazi incerti e figure delicate, le storie pittoriche di De Giorgi riflettono un mondo libero da concretezza e fisicità. 

                                                                                                           Maria Vinella

                                                                                                                                                                                                             
Il singolare universo dell’artista visionario

Quotidiano di Puglia 7 novembre 2016
di Carmelo Cipriani


Si svolge nell’ambito della rassegna d’arte contemporanea “Autunno d’Autore” curata da Rita Fasano presso la Pinacoteca Comunale “Salvatore Cavallo” di San Michele Salentino, la mostra personale di pittura e scultura di Enzo De Giorgi, visibile fino al 22 novembre. Conclusa da poco la personale “Vent’anni dopo”, con cui l’artista ha voluto tracciare un bilancio dell’ultimo ventennio, non nella consueta forma antologica ma recuperando e rieseguendo un ciclo pittorico a due decenni di distanza l’uno dall’altro, De Giorgi torna ad esibire i suoi lavori, facendosi testimone di un mondo da sogno eppure possibile.
Nato in Piemonte da genitori salentini, si è formato a Lecce, prima presso l’Istituto d’Arte, poi nella locale Accademia di Belle Arti. Compiuta la formazione si è dedicato all’insegnamento delle discipline pittoriche, affiancando alla didattica un’intensa attività espositiva. Artista poliedrico, si esprime con mezzi molteplici, dall’illustrazione alla pittura, dalla grafica alla scultura, dal fumetto alla decorazione, senza gerarchia di genere né divisioni tra soggetti e supporti. Il suo è un flusso creativo continuo che attraversa medium differenti e approda a molteplici traguardi.
Nel museo del piccolo comune del brindisino, De Giorgi propone gli esiti più recenti della sua ricerca. Sognanti figure con gli occhi chiusi e i capelli al vento abitano scenari rurali in una mitopoiesi tranquilla, al netto di elucubrazioni e arrovellamenti cerebrali. Piccole chiese e case di campagna, solide nei vani parallelepipedi, floride piante di fichi d’India, imperituri muretti a secco, connotano territorialmente i dipinti, rivelando nel paesaggio salentino il primum movens delle sue fantasiose quinte. Su tutto domina il caldo solo del sud, non allo zenit ma al tramonto come rivelano le lunghe ombre, condizione endogena, elemento esistenziale ed antropico ancor prima che fattore naturale.
I suoi personaggi assumono non di rado un atteggiamento estatico, inducendo lo spettatore all’emulazione, ad interrogarsi su quella beatitudine, che non è difficile riconoscere nel rinnovato contatto con la natura. Una figurazione onirica, propriamente fiabesca, che nella scala cromatica di ocra e rossi, perfettamente accordata con verdi tenui e azzurri delicati, trova delicate armonie, suadenti proposte di una narrazione iconica densa di riferimenti alla metafisica e al surreale. La linea sinuosa si muove in un disegno serrato componendo scene rurali libere dalla mortificante condizione della periferia. La traccia pittorica scivola tranquilla sulla tela, senza interruzione o pentimento, racchiudendo contenute zone di colore delicatamente sfumate. Alberi spogli e campi deserti determinano atmosfere autunnali, mentre minuti ed episodici dettagli come pesci o figurine volanti restituiscono le singole scene al dominio dell’onirico. Donne abbandonate su letti in piena campagna, con sassi sulle spalle o nei panni di marionettiste, celano, dietro l’apparente spensieratezza, dubbi e spaesamento. Una figurazione colloquiale, a tratti ammiccante, capace di sfuggire alla retorica del figurativo e di riconsegnare alla quotidiana esistenza la magia del sogno e della fantasia. Spazio labile e infinito come quello di uno specchio riflettente realtà discordanti, la pittura diviene alternativa, possibilità di evasione da una vita che ci affligge.
Presentazione mostra 5 novembre 2016
di Rita Fasano

Siamo nel mezzo di una poesia. Nella trama che armonia e melodia intessono lasciando librare nell’aria le speranze che aleggiano e danno fiato all'esistenza. Passando dalla dimensione dell'incubo a quella del sogno, dal dramma alla poesia. Questo attraversamento, questa maturazione raffinata  in vent'anni ( La mostra allestita presso la Pinacoteca Comunale di San Michele Salentino ha  proposto in esposizione l'abbinamento di due opere aventi lo stesso titolo. Una più piccola, materica, realizzata nel 1996, l'altra più grande, dipinta ad olio, realizzata nel 2016), a dimostrazione che il dolore, la crudeltà, l'ingiustizia e ogni  grigia  manifestazione della vita, se osservate ed  espresse secondo  lo stesso alfabeto, secondo un lessico scuro e cupo rimane bloccata, greve e chiusa in se stessa.  Ma se lo stesso contenuto,  lo si esprime secondo una sconfinata e solare energia che manifesta bellezza infinita, pur nella asprezza del messaggio, tutto giunge più profondamente poiché distende gli animi ed apre i cuori di chi osserva  predisponendo lo spettatore all'ascolto. La comunicazione può penetrare, coinvolgere e fissarsi ancor di più nel nostro cuore attraverso la levità della bellezza dell'arte.
C’è qualcosa di profondamente ancestrale nelle opere di De Giorgi che le rende accessibili a tutti: l’immaginario vivace e multiforme dell'artista sembra parlare direttamente al subconscio dello spettatore. Ci riporta alla bellezza originaria, ricordandoci che tutto è Amore ed è l'alfabetizzazione del nostro spirito che ha chiuso, nella forza di gravità che ci trattiene pesanti a terra, il nostro stato di infinita possibilità.La forza incredibile della sua espressione, sta nella dolcezza, nella serenità, nel senso dell'infinito che ci fanno entrare, quasi fisicamente,  in questo territorio della libertà della Natura, della Bellezza, dell’Amore, che è il lessico dell’Arte. Quel logos ideale di emozioni, in cui le immagini infondono trame di energia e di vitalità. Ogni opera racchiude una storia in sé stessa creando una visione nella quale c’è una trama che segue la gravità del sogno.  Il colore, le figure, gli oggetti trovano fra loro una complicità e un legame mai banale che si espande nel continuum illusorio della raffigurazione.L'elemento mobile e fantastico nella carica emozionale del colore, contraddistingue l'originale espressione artistica dell'artista. Nascono dipinti di onirica bellezza, in cui il mondo visibile è ricreato fantasticamente con armonie inedite nella varietà dei fermenti ispirativi e del  il gioco guizzante del colore dalle calde tonalità.
E dal sovvertimento delle leggi fisiche della gravità.
E dal sovvertimento della razionalità.

Vent’anni dopo. le Visioni oniriche di enzo de giorgi
di Antonietta Fulvio

dal 3 al 16 settembre 2016 a lecce nelle sale della fondazione Palmieri

LECCE. Colori caldi, atmosfere sospese e il potere evocativo dell’immagine che si fa racconto, storia ed emozione. Il segno dell’artista Enzo de Giorgi è inconfondibile. Nato a Nizza Monferrato da genitori salentini nella sua tavolozza ha i colori del Sud che si porta dentro. Con il suo tratto morbido e leggero riesce a delineare i paesaggi e i personaggi che popolano le sue tele. E a catturare la musica che pervade le cose. Perché le note non sono solo fatte di suoni ma possono anche essere sfumature di colori che disegnano il mondo e i sogni. Ci sono immagini nella vastissima produzione pittorica di Enzo De Giorgi che rimandano all’onirico, alla sfera dei sentimenti più intimi e segreti che fanno parte dell’universo collettivo. Davanti ad una sua tela non si resta solo affascinati ma ci si ritrova, per magia, catturati al suo interno. Quando attinge ai miti classici, comeApollo e Dafne, Narciso, Arianna, Icaro o quando immagina il Don Chisciotte in sella al suo destriero con tanto di spada sguainata contro i mulini al vento… O ancora se dipinge il mare, i paesaggi del suo Sud, la pizzica tra i muretti a secco o i monumenti della sua Lecce finiti in un calendario tanti anni fa… Ho avuto il privilegio di conoscere e seguire la carriera di Enzo De Giorgi sin dalla sua prima personale a Lecce. Ricordo ancora il titolo, “Consce Angosce e altri veleni” e inaugurava uno spazio espositivo che aveva lo stesso nome del film di Eric Rohmer e che insieme a Giusy Petracca e ad Ambra Biscuso avevamo creato per dare visibilità ai giovani. All’epoca quel ragazzo dall’aspetto gentile frequentava ancora l’Accademia di Belle Arti e per mantenersi gli studi faceva il portiere di notte e talvolta vendeva i suoi quadri agli ospiti dell’albergo. Oggi è docente del Liceo Artistico “Ciardo Pellegrino” che lui stesso ha frequentato con maestri del calibro di Castelluccio e Moscara diplomandosi nella sezione metalli ma - come lui stesso racconta - strizzando l’occhio furtivo alla pittura, sua grande passione. E dopo tanti sacrifici e anche duri anni di insegnamenti da precario nel Nord, Enzo è riuscito a coronare il sogno di insegnare pittura e grafica nell’istituto dove si è formato, ritornando nella sua terra. Con la mostra “Vent’anni dopo” che si apre a Lecce il 3 settembre nelle sale della Fondazione Palmieri ripropone gli stessi soggetti della sua prima personale, rivisitati sia dal punto di vista tecnico che emotivo. Abbiamo incontrato Enzo De Giorgi nel suo atelier che ci ha anticipato i contenuti del suo nuovo progetto artistico.

Vent'anni dopo...come nasce l'idea di questa mostra?
Sfogliando le vecchie foto ci sorprendiamo, nel bene e nel male, dei cambiamenti del nostro corpo; quasi sicuramente rimpiangiamo le nostre folte capigliature, la pelle giovane e un’età più spensierata. Sorridiamo guardando il modo in cui vestivamo, la nostra pettinatura e le montature degli occhiali che portavamo. Siamo cambiati gradualmente, senza accorgercene. Però ci sono degli avvenimenti, dei momenti particolari che segnano per sempre la nostra esistenza e che rimangono impressi nella nostra mente. Non è nostalgia dei tempi andati, né il voler rievocare un bel momento; è piuttosto il “fare il punto della situazione”, il fermarsi a guardare il presente e il passato per capire che direzione abbiamo preso e dove stiamo andando. Giuriamo a noi stessi di essere sempre quelli, ma pensiamo e parliamo una lingua diversa da quindici-venti anni fa e usiamo una voce ormai cambiata e con i nostri corpi sono cambiate anche le nostre anime. Sì, “Consce Angosce ed altri veleni” era il nome della mia prima personale di pittura tenuta a Lecce nel 1996. Con la mia mostra si inauguravano anche le attività e la sede dell’associazione artistica “Raggio Verde” che offriva visibilità ad artisti emergenti in una città assetata di cultura, ma troppo chiusa nelle sue sacre “caste” espositive. Il presidente e i soci del “Raggio Verde”, a cui devo il mio esordio, avevano creduto delle mie potenzialità ed avevano organizzato e fissato la mia prima mostra personale prima ancora ch’io avessi avuto il tempo di realizzare dei quadri. Quadri che ho prodotto in pochi giorni e che furono brillantemente presentati da Ilderosa Laudisa in una bella serata di inizio aprile. Tutti i dipinti di quella mostra erano ispirati a frasi o atmosfere tratte dai testi del cantautore e scrittore Claudio Lolli. Testi che ho sempre amato e in cui mi rispecchiavo. Nel 1996 avevo ventisette anni e le parole del mio autore preferito esprimevano molto bene quelli che erano allora i miei stati d’animo, il mio mondo interiore.

Una narrazione per immagini, dunque...
Ci sono molti modi per raccontare o esprimere dei pensieri con le immagini. I miei quadri non vogliono però essere illustrazioni di situazioni narrate dalle parole di un poeta, non intendono rappresentare delle “storie” con immagini puramente descrittive. Tutti i miei dipinti sono evocazioni soggettive, visioni personali che riemergono da un inconscio nascosto e prendono forma, richiamate, semmai, da specifiche musiche e parole.

Mi parli del tuo tuo rapporto con la musica e in particolare con i testi di Claudio Lolli che ispirarono i dipinti della tua prima personale?
Ho sempre dato molta importanza alla musica e sicuramente la pittura ha molte affinità con le note e le canzoni d’autore. Tutti i dipinti della mia prima personale di pittura nascevano da brani musicali. Molti musicisti sentono l’esigenza, a distanza di anni, di adattare in modo differente alcuni loro pezzi, riproponendoli al pubblico con nuovi arrangiamenti e con tonalità vocali ormai cambiate nel tempo. La stessa esigenza l’ho sentita confrontando la mia produzione pittorica più recente con quella delle mie prime mostre. Sono passati esattamente vent’anni dalla mia prima personale di pittura. Volevo in qualche modo celebrare quel 1996 che ha rappresentato una tappa fondamentale della mia vita professionale, coincidente anche con l’anno della mia prima nomina di insegnante (“Figura disegnata” presso il Liceo Artistico di Alba). Ho deciso di ricordare quella mostra riesponendo quei nove dipinti insieme ad altrettante nuove riletture, vent’anni dopo. Perché di acqua, sotto i ponti ne è passata tanta da allora, nel bene e nel male e anche quei quadri, oggi, sarebbero nati sotto una luce diversa, sia tecnicamente che concettualmente.

Sei stato tanti anni un precario “vagabondo” poi il ritorno a Lecce dove ritorni ad esporre. Come si sono evolute le tecniche pittoriche e quali motivazioni?
Lecce è cambiata molto da quell’aprile del 1996. Il locale di via D’Aragona che ospitava la mia mostra è diventata una delle tante pizzerie della “movida” cittadina, ma fortunatamente sono sorti, nel tempo, anche molti nuovi spazi espositivi. La mia nuova mostra non sarà molto distante dalla sede originale poiché avrà luogo dal 3 al 16 settembre presso la Fondazione Palmieri, nell’ex chiesa di San Sebastiano. Per questo progetto che ho intitolato “Vent’anni dopo” (con vaghe allusioni a Dumas e Guccini…), ho rielaborato notevolmente i dipinti originali abbandonando la tecnica polimaterica preferendo a questa una pittura ad olio più pura, come faccio già da diversi anni. I nuovi soggetti si aprono a spazi più vasti e le figure non fanno più riferimento a forme espressioniste. Le stanze anguste, le fredde prigioni con le pareti lacerate di vent’anni fa hanno lasciato il posto ad albe luminose che invadono coi loro colori caldi e avvolgenti le scene di nuovi sogni. Perché è vero, l’arte può essere espressione, comunicazione, provocazione… ma anche e soprattutto “bellezza”. Viviamo una vita sola, tra scelte personali e costrizioni sociali e forse questa consapevolezza mi ha portato, nel tempo, a guardare ciò che mi circonda usando un filtro meno tragico e drammatico di quanto poteva emergere nei lavori dei miei esordi. Le “angosce” di vent’anni fa non fanno più paura perché il mio sguardo “ironico-onirico” fissa sulla tela visioni che vertono più al sogno che all’incubo, nonostante il contenuto sia tutt’altro che consolatorio. Non ho mai smesso di ascoltare le poesie del mio “amico” Claudio Lolli: mi emozionano ancora e nonostante il passare dei decenni le trovo sempre moderne e rivoluzionarie.

Cosa ti senti di consigliare ai tuoi alunni che hanno la tua stessa passione per l'arte?
Vent’anni fa, come già detto, iniziavo anche il mio “mestiere” di insegnante. Oggi i miei alunni hanno l’età di mio figlio, ed anche a loro non posso che consigliare, per il futuro, di investire il loro tempo in quelle che sono le passioni e gli interessi personali: se una cosa ci piace, la facciamo meglio e con meno fatica. La creatività, poi, è un valore aggiunto e produrrà i suoi frutti in qualunque attività lavorativa e in ogni contesto sociale.
Tra Fichi d’India e muretti a secco, inaspettatamente i fumetti:
intervista a Enzo De Giorgi

di Gianluca Fedele


Coloro che dal 30 aprile al 3 maggio 2015 hanno visitato la sesta edizione di “Externa - Salone nazionale dell’arredo degli spazi esterni” presso il polo fieristico di Piazza Palio, si saranno certamente imbattuti in “Exter Arte”, rassegna curata dall’artista Stefano Garrisi e dedicata alla scultura. Qui ho apprezzato per la prima volta, tra le altre, le opere di Enzo De Giorgi.
Con quest’ultimo il 24 luglio ci siamo incontrati de visu a Tuglie (LE) dove alcune sue opere erano esposte insieme a quelle di altri artisti all’interno del Museo della Civiltà Contadina del Salento, in occasione di “CARPìE - Miscellanea Visiva”, mostra collettiva di arti figurative realizzata in concomitanza con la decima edizione del “Premio Teatrale Nazionale Calandra”.
Enzo apprezza sin da subito la mia attenzione nei riguardi dei sui disegni e senza indugio si rende disponibile per un incontro. Lo raggiungo dopo qualche giorno nella sua abitazione a Trepuzzi (LE) alle 10:30 di una torrida mattina di agosto.
Ci accomodiamo all’interno di un ampio salone passando attraverso una casa dove è difficile scorgere angoli di parete sgombri da tele, sculture, piastrelle decorate e altri oggetti d’arte.
Il mio sguardo si posa su alcuni violini e il padrone di casa mi spiega che fanno parte di una passione del padre di costruire strumenti musicali e affini.
Poi è lui a prorompere con una domanda, chiedendomi quali particolari mi abbiano attratto nei suoi quadri. Io gli rispondo che ho trovato curiosi gli elementi tipici del paesaggio salentino all’interno di rappresentazioni contemporanee come i “fumetti” che realizza.

So che attualmente insegni Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico di Lecce. Insegnante e artista prolifico. Quale delle due passioni è nata per prima?


“Necessitate virtute”, sarei tentato di dire.
Bisogna premettere che ci sono artisti che nascono da famiglie agiate e che hanno per questo la comodità economica che consente loro di frequentare l’Accademia di Belle Arti e gli artisti, di dipingere ed esporre tranquillamente. Per me è stato diverso perché, viceversa, vengo da una famiglia normale: mio padre operaio, mia madre casalinga. Io il maggiore di cinque figli. Aggiungici che in casa non c’era una tradizione scolastica, ciò significa che dopo la terza media si andava direttamente a lavorare presso il primo cantiere edile che fosse in cerca di manovalanza. Ma amavo studiare, così a quattordici anni convinsi mio padre a iscrivermi all’Istituto d’Arte. Andò lui stesso in segreteria e dato che di professione faceva il fabbro/serramentista, quando gli dissero che tra i vari corsi c’era la sezione “arte dei metalli” lui non ebbe dubbi su quale fosse l’indirizzo degno di suo figlio. È superfluo aggiungere che avrei voluto fare pittura.
Chi ha frequentato questo genere di istituti sa che le classi, pur appartenendo a percorsi differenti - arredamento, ceramica, tessuto, ecc. -, si mescolano durante le lezioni delle materie comuni; trascorsi così cinque anni sbirciando nelle cartellette dei compagni, tra i loro appunti, nell’intento di carpire e apprendere informazioni su quella che già allora era la mia grande passione: disegnare.
In quegli anni, tra l’altro, presso l’Istituto d’Arte di Lecce insegnavano grandi maestri del colore come Oronzo Castelluccio e Alberto Moscara.
Il riscatto avvenne con l’Accademia perché mi iscrissi nel corso di decorazione. E qui mi riallaccio alla tua domanda perché la necessità di dipingere è sempre andata di pari passo con la possibilità di poterlo fare.
Iniziai a frequentare l’accademia delle Belle Arti di Lecce subito dopo il militare e nel frattempo, per mantenermi negli studi, lavoravo in un albergo come portiere di notte. Ora puoi immaginare benissimo che la mattina avevo giusto il tempo di levarmi dal collo la cravatta e indossare i jeans prima di entrare in aula.
Non ho mai avuto la possibilità di fare “l’artista a tempo pieno” ma studiai per esserlo anche quando dovevo guadagnarmi da vivere. E fu così che in albergo arrotondavo vendendo i miei primi quadri.

Chi acquistava le tue opere?


Solitamente erano i clienti dell’albergo, persone che veniva dal nord Italia alle quali ho arredato interi appartamenti solo con i lavori che realizzavo in accademia. Difatti non mi è rimasto quasi nulla di quel periodo, solo qualche rullino pieno di foto da sviluppare.

Ho letto che le prime cattedre furono nel nord Italia; per scelta o anche lì si è trattato di necessità?


Già quando nel ’94 - sotto gli insistenti consigli di un amico - feci la domanda per l’insegnamento  era molto difficile essere presi qui nel meridione, così scelsi un’altra destinazione. All’epoca la provincia di Cuneo era stata completamente allagata da un tremendo alluvione e quindi pensai che fosse poco ambita. La deduzione si rivelò esatta e iniziai con la trafila delle prime supplenze. Poi non ero proprio solo perché in provincia Asti avevo dei parenti coi quali trascorrere qualche fine settimana.

In una descrizione che fai di quel periodo lo definisci “esilio”. Sono stati dodici anni difficili?


Ho diversi amici che hanno fatto il mio stesso percorso, ma la maggior parte di loro ha avuto la fortuna di installarsi in un unico paese per insegnare, magari anche nella stessa scuola. Per me è stato diverso perché la provincia di Cuneo è la più estesa del Piemonte e forse d’Italia - per questo viene anche detta “la Granda” - dove ci sono città che distano anche cento chilometri l’una dall’altra. Io, puntualmente, ogni anno venivo trasferito in posti diversi ed ero costretto a fare una vita da zingaro. Tieni conto che nel 2000 è nato mio figlio e quindi tutta la famiglia si spostava con grandi difficoltà tra paesi e regioni.

A Lecce dopo quanto sei tornato?


A Lecce sono rientrato nel 2008 in “assegnazione provvisoria” per diventare definitiva dopo un paio d’anni. Adesso sono già al quarto anno scolastico e da quest’anno curo tre rami differenti; la Preside infatti mi ha inserito nei corsi di Grafica e Multimedia oltre a quello di Pittura, naturalmente. Sono molto soddisfatto perché l’istituto vanta colleghi insegnanti molto preparati - come il prof. Massimo Marangio - e, cosa più importante, coltivo con i miei ragazzi una buona intesa.

Hai delle figure di riferimento dei tuoi anni da allievo?


Come dicevo, avendo frequentato controvoglia la sezione dedicata ai metalli, lì non ho subito l’influenza di importanti personalità. L’unico grande maestro al quale fui legato era lo scultore Nino Rollo. Ricordo che mi chiamava fuori dalle sue ore di lezione, durante italiano o matematica, per stare insieme a disegnare. Purtroppo è deceduto nel 1992, non aveva ancora compiuto cinquant’anni.
Qualche traccia del suo ascendente sulla mia produzione la si individua più nelle sculture in effetti, poiché nella grafica io ero attratto più dai fumetti. Rollo invece era amante delle forme pure, sull’onda di Constantin Brâncu?i e Henry Moore, promotori di quello stile pulito ed essenziale.
In ogni caso, benché con Rollo avessi un rapporto affettuoso e collaborativo, si tratta di influenze marginali perché io credo che ogni artista debba individuare un proprio stile espressivo che è univoco e inequivocabile, una sorta di tratto calligrafico e non uno scimmiottamento dell’estro altrui.

Lo studio del tuo segno caratteristico ora si è fermato oppure è in evoluzione?


Ciò che realizzo è frutto di un gesto naturale, spontaneo e per nulla forzato, perciò attualmente credo di aver raggiunto uno stile abbastanza autentico e riconoscibile. Certo è che, a confronto, i miei primi disegni erano caratterizzati da contorni molto più spigolosi rispetto agli attuali e questo è sintomo di una costante evoluzione. Alche la produzione di quadri ha subito delle importanti metamorfosi: agli esordi creavo opere multimateriche che contemplavano persino l’uso di transistor e quindi completamente differenti dalla produzione attuale.
Oggi, nella mia mente, continuo a concepire una infinità di progetti che spaziano dal fumetto alla digital art, passando per la scultura ma a causa di diverse ragioni non tutte le mie idee sono destinate a vedere la luce.

Infatti guardandomi intorno non posso non notare opere realizzate in maniera totalmente differente; vedo tufo, pietra leccese, schizzi con penna biro, terracotta e ovviamente tele. Quanto conta la ricerca sulla materia per te?


L’arte è ricerca! Non esiste l’una senza l’altra e se non crei nulla di nuovo stai solo rifacendo quello che altri hanno realizzato prima di te, quindi sei a un punto morto.

Tra i nomi dei grandi maestri quali sono quelli che maggiormente hai amato?

Negli anni ’70 il fumetto, per noi ragazzi, rappresentava una forma di creatività assoluta e a me piaceva molto Andrea Pazienza, forse perché anche lui era di origini pugliesi. Da Pompeo a Zanardi ho amato tutti i suoi personaggi. Morì a 32 anni ma aveva già realizzato dei capolavori assoluti. Restando nella sfera fumettistica non posso non citare grandi maestri come Manara e Pratt. Tra gli illustratori contemporanei trovo notevole Gipi, col suo segno volutamente istintivo e una narrazione avvincente.
Per quanto riguarda la pittura invece i nomi sono diversi ma sempre appartenenti al ‘900: Picasso, Matisse, Paul Klee, Mirò tracciano in modo certo quello che potrei definire il mio punto di partenza.

Quanto ti hanno influenzato i fumetti da ragazzo?


Non mi posso considerare un accanito lettore ma hanno fatto comunque sempre parte della mia vita. A sedici anni partecipai ad un concorso organizzato dalla celebre rivista Topolino realizzando una locandina per un film d’animazione della Disney. Vinsi il secondo premio che consisteva in un viaggio negli Stati Uniti a Disney World. 


Quando disegni cos’è che ti stimola nella realizzazione di un quadro, un fumetto o una scultura?


Noi viviamo nel secolo in cui imperano i mass-media, quelli che ci bombardano con immagini, film, pubblicità e tanto altro ma per quelli della mia generazione la musica rappresentava e rappresenta ancora un forte catalizzatore della fantasia. Le storie raccontate da De Andrè, Fossati, Guccini, Lolli e tutti gli altri grandi cantautori hanno contribuito alla nascita di molte mie opere. Difficilmente dipingo se sono slegato da una vicenda o da un racconto, che sia persino mitologico. E quando dipingo amo sempre avere la compagnia della musica.

C’è una corrente artistica che descrive le tue opere?


Sinceramente non saprei in quale filone stilistico collocare le mie opere. Forse a caratterizzarle è un certo surrealismo ma questo non implica assolutamente il fatto che io sia un pittore surrealista.

Una domanda che mi pongo spesso è se collaborazioni tra artisti nel meridione siano complicate. Lo chiedo a te che ai ragazzi, a scuola, insegni la cooperazione.


Le collaborazioni sono importanti ma non obbligatorie. È bello vedere insieme le individualità che si amalgamano ma è molto difficile che si realizzino lavori a più mani dove nessuno sia prevalso sulle scelte degli altri. Per quella che è la mia esperienza, la persona con la quale sono riuscito a individuare un’intesa artistica che si protrae e si rinnova da anni è Raffaele Vacca, eccezionale scultore col quale, tra l’altro, nella primavera del 2013 organizzai una mostra doppia personale presso la Fondazione Palmieri di Lecce, dal titolo “IronicOnirico”. Le due parole, l’una l’anagramma dell’altra, descrivono anche gli aspetti che sostanzialmente ci accomunano.

Le mostre sono l’unico mezzo di promozione per un artista?


Non solo. Prendo atto che i social network, per esempio, costituiscono il mezzo più efficace per farsi conoscere, più del sito internet personale e delle mostre, devo ammettere. Per essere pratici, la vendita qui nel Salento è disagevole perché i più ricorrono all’acquisto di un’opera d’arte quasi esclusivamente in occasione di un regalo, per un matrimonio o circostanze analoghe. Non è diffusa la cultura del collezionismo delle opere d’arte e men che meno dell’investimento. Il paradosso, infine, è che chi acquista il più delle volte non è spinto da un’intima attrazione verso la raffigurazione ma banalmente sceglie artisti già deceduti - o che comunque hanno raggiunto il culmine del loro valore economico - per mera convenienza, anziché puntare invece sui giovani emergenti che cercano di elevarsi tra mille difficoltà.

Le gallerie, in questo senso, possono offrire visibilità a un artista?


Probabilmente si, ma per quanto mi riguarda, grazie soprattutto allo stipendio di insegnate che mi fa da paracadute, lascio che sia l’imprevedibile casualità a interessarsi di me. Come d’altronde casuale è stato il nostro incontro.
Ho avuto la possibilità di intraprendere la collaborazione con una pinacoteca ma i vincoli troppo restrittivi mi hanno indotto a desistere: se avessi accettato di sottoscrivere il contratto non avrei avuto neppure la libertà di regalare a un collega un bozzetto realizzato durante i consigli di classe. Per non parlare dei tempi e delle scadenze entro le quali avrei dovuto consegnare un determinato numero di opere. Mi è sembrato un ragionamento piuttosto meccanico, da catena di montaggio. L’arte ha i suoi tempi e le sue ovvie libertà.

Ho l’impressione che ci sia un proliferare di astrattisti. Un artista che elabora rappresentazioni figurative come percepisce l’arte informale?

Nell’arte difficilmente riesco a percepire quello che vedo come una immagine fine a se stessa. Faccio un esempio. A me piace molto Alberto Burri. Quando osservo una sua opera, che si tratti di combustione della plastica o di lacerazione di un sacco di juta, non la vedo esclusivamente come nuda materia e neppure come fattore estetico, io ci vedo una città vista dall’alto, una foresta, oppure un corpo lacerato dalla guerra. Quindi mi viene naturale rapportare ogni immagine alla realtà oggettiva. Per semplificare ulteriormente dirò che un quadro informale può essere letto o come un dettaglio della realtà o la realtà vista da molto lontano.

Esiste una possibilità che l’arte diventi veicolo per il miglioramento della società?


Negli ultimi anni sto constatando l’incrementarsi di una genuina sensibilità da parte della società rispetto a determinate tematiche (ecologismo, contrasto all’abusivismo, lotta contro il maltrattamento degli animali, ecc.) che una volta erano a uso e consumo esclusivo dei pensatori, dei letterati, degli artisti in generale. Evidentemente, se dentro a ognuno di noi si è sviluppata quella parte sensibile, lo dobbiamo anche a loro. Una società che scommette nell’arte non può che progredire in meglio.

ENZO DE GIORGI: LA BELLEZZA, IL WEB E I PEZZI DI PUZZLE
Servizio/intervista di Cosima Borrelli

Settimanale di attualità, polItica, cultura ed eventi  ANNO X N°2 15 gennaio 2016

Ha ragione lui, artista a tutto tondo: «Quando la tendenza al brutto cambierà e l’interesse non sarà più solo economico o di audience, allora sì, forse, la bellezza avrà la possibilità di salvare il mondo. Per fortuna le maglie della rete Internet sono abbastanza larghe per lasciar passare tutta la bellezza che si vuole. Basta cercarla e cliccare “mi piace”»

Il risultato visivo nelle sue opere è quello di un puzzle metalinguistico capace di raccontare storie pittoriche che trascinano in un magico incanto. Creazioni che misurano la cronaca dell’esistere attraverso un registro stilistico vario e popolare, carico di simbologie, storie, romanticismi, emozioni raccontate attraverso un nuovo ed eccelso neoromanticismo e un surrealismo sognante  colmo di stupore e meraviglia. Opere  con un linguaggio immediato, un connubio figurativo-informale che rende il lavoro artistico  degno di notevole attenzione. Enzo De Giorgi, da anni impegnato  in un percorso artistico singolare, si racconta.

Enzo de Giorgi, insegnante di discipline pittoriche presso il liceo artistico di Lecce e artista a tutto tondo. Come nasce il suo rapporto con l’arte e come si è evoluto nel tempo?

«Tutte le strade  che ho percorso finora, mi hanno sempre portato nella medesima direzione, anche quando queste sembravano curvare verso orizzonti differenti. Sono sempre stato attratto da ogni forma di arte figurativa. Ho frequentato l’Istituto d’Arte (l’attuale liceo di Lecce in cui ora insegno) nella sezione di “Arte dei Metalli e dell’oreficeria”. All’Accademia di Belle Arti di Lecce ho frequentato la sezione “decorazione”, preferendola nuovamente a quella di “Pittura” ma l’illustrazione, il fumetto  e la pittura hanno sempre fatto parte di me, pur non avendo avuto mai un vero maestro in queste arti. Sarà per questo che non mi riconosco in nessuna delle personalità artistiche fortemente presenti nel mio territorio: ho dovuto fare sempre da solo, sicuramente sbagliando, ma trovando forse soluzioni personali originali. Tra le “strade secondarie” che ho percorso, ma che mi hanno portato in questa direzione, ci sono stagioni in villaggi turistici e nelle televisioni locali per realizzare scenografie; esperienze estenuanti di murales e trompe-l’oeil per le pareti di locali, mesi a lavorare sulle impalcature per decorare le alte volte di palazzi storici; campagne grafico-pubblicitarie malpagate per tutte le agenzie di Lecce; copertine e illustrazioni per le case editrici e poi anni di insegnamento al nord Italia in “Pittura” e in materie più o meno “parallele” (Oreficeria, Storia dell’Arte, Educazione Artistica, Sostegno…), corsi e concorsi abilitanti per l’insegnamento, intervallati ogni tanto da una mostra personale e da dipinti su commissione. Il mio rapporto con l’arte è stato quindi continuo e variegato ed è, tuttora, sempre in evoluzione. Esattamente vent’anni fa esponevo una dozzina di dipinti nella mia prima mostra personale: era il 1996. Uno dei miei desideri, per quest’anno, è quello di realizzare, in occasione del “ventennale”, una mostra personale in cui rivisito “vent’anni dopo” quegli stessi dipinti, attualizzandoli nel mio modo di fare odierno».

Il suo percorso artistico abbraccia pittura, illustrazione, fumetto, digital art, decorazione,  scultura e questo denota la sua grande versatilità, vitalità espressiva e voglia di sperimentare nuove forme e stili. Quanto conta la ricerca su vari tipi di materia e tecniche?

«Non ho mai avuto un vero maestro da seguire o imitare, quindi ho sempre tentato di “captare”segnali artistici dalle più svariate fonti, cercando, oltre ad un segno in cui riconoscermi, anche una tecnica che potesse in qualche modo contraddistinguermi. Ne ho provate tante, e cerco sempre nuovi stimoli espressivi, senza però allontanarmi troppo da quello che è diventato nel tempo, ormai, il mio segno di riconoscimento. Quel modo di “stilizzare” la figura e gli spazi, il mio “marchio di fabbrica”. Non sono mai sicuro di quello che sto facendo, ho sempre mille dubbi sul risultato, ma alla fine ogni esperimento/esperienza mi arricchisce e mi aiuta a costruire nuovi ponti verso qualcosa che ancora non so, ma che di sicuro mi appartiene prima ancora di raggiungerlo».

Nelle sue opere è evidente la realtà visionaria della cultura neofigurativa dell’arte contemporanea. I suoi dipinti sono caratterizzati da un certo surrealismo, ma quale corrente artistica descrive meglio le sue opere?

«Non lo so. So cosa mi piace, e sicuramente quello che mi piace influenza ciò che faccio, senza (spero) assomigliare a nessuno, non mi definisco esplicitamente “surrealista”. Mi piacciono Modigliani e Chagall, ma anche Rousseau e Gauguin. I colori di Klee mi fanno impazzire, ma ammiro anche la purezza delle forme di Brancusi. Andrea Pazienza è un mio peccato di gioventù. Mi stimolano le contaminazioni stilistiche ed “ingabbiarmi” in una sola corrente artistica mi sembra vincolante e limitativo, però il lato “sognante” ed evocativo del surrealismo è uno degli aspetti che più mi affascina, tanto che nel 2013, insieme al mio amico Raffaele Vacca proponevo “IronicOnirico”, una doppia personale di pittura e scultura dove l’ironia e il sogno convivevano, per tema e stile, nelle opere di entrambi».

Come  prendono vita le sue “storie per immagini”? Le opere nascono da un virtuosismo nato da ispirazioni improvvise e visioni istintive oppure da scelte studiate e precise?

«Mi viene in mente un puzzle appena abbozzato, con tutti i pezzi sparsi in modo casuale che lasciano pensare a scene diverse da quella che formeranno una volta combinati correttamente: è davvero affascinante vedere pezzi di cielo che si mischiano in modo inatteso a tessere con volti umani o a pezzi di prati verdi, assomiglia al caos della vita a cui cerchiamo di dare una interpretazione e un ordine logico anche quando non c’è. Siamo circondati e condizionati da bombardamenti mediatici, musica, cinema, pubblicità che ci trasformano continuamente come vuole il mercato, ma nella nostra metamorfosi progressiva, a volte, captiamo frequenze inaspettate, ma tanto forti da indurci a soffermarci, a pensarci sopra e a tirarci fuori qualcosa di personale, da quelle frequenze, contro ogni legge di mercato. Il territorio in cui viviamo, la nostra cultura popolare, se vogliamo, diventa un ingrediente indispensabile che si amalgama volentieri a tutto il resto. I dipinti della mia prima mostra personale di pittura nascevano da alcune frasi, molto evocative, estrapolate dai testi delle canzoni di Claudio Lolli; i quadri di “IronicOnirico”, invece erano le più note storie della mitologia classica, ma ambientate in un idealizzato mondo contadino del nostro sud, tra ulivi, muretti a secco e masserie. In molti altri dipinti, la realtà, drammatica o festosa, personale o collettiva ha preso il sopravvento inondando le mie tele di barchette di carta capovolte, ma anche di musica, danze e paesaggi senza tempo. Cerco di non essere mai troppo diretto e cruento, uso filtri favolistici, almeno cromaticamente, anche quando il contenuto di un mio trittico è legato a tragedie come la Shoah».

Sculture in pietra, terracotta e legno dall’anima poliedrica e dal fervido estro creativo. Lei è capace di donare sinuosità e leggerezza, plasticità ed armonia alla materia che plasma. Preferisce lavorare un determinato materiale?

«Accidenti che belle domande! Non amo la falsa modestia e spero di non fare questo effetto a chi legge, ma devo dire che sono veramente lusingato da un’attenzione così benevola nei confronti dei miei lavori. Mi piacerebbe trovare una risposta altrettanto bella, ma mi limiterò col dire che considero la materia stessa, al pari della sua forma, parte del significato dell’opera: una stessa scultura, a seconda che essa sia stata realizzata in pietra o in terracotta ha già un valore espressivo e simbolico implicito e differente. Mi piace molto plasmare la creta, poiché la forma si materializza in tempo reale, nello stesso momento in cui si sta immaginando, ma prevedo sempre di combinarla con altri elementi/materiali che possono essere elaborati artificialmente (pietra, metallo…) oppure naturali (legni trascinati dal mare…)».

Arte e comunicazione. Dalle gallerie d’arte a Internet. Può raccontarci il suo approccio con la rete?

«Sembrano lontanissimi quei tempi in cui, per mostrare i miei dipinti, dovevo confezionare “a mano” goffi album fotografici  artigianali (usando stampe analogiche), con grande dispendio di energia e di denaro, sperando poi di riaverli indietro per evitare di dover rifare ogni volta tutto il lavoro daccapo. Le prime mostre le ho allestite a Lecce, grazie a persone che credevano nelle mie possibilità di “giovane artista”, associazioni che mi avevano invitato a esporre i miei “veleni” nei loro spazi. Poi, altri contatti, mi hanno portato ad esporre i miei quadri anche al di fuori dei confini regionali. I miei artigianali “album fotografici” viaggiavano su e giù per l’Italia.
Poi, anche a casa mia  arrivò il computer e  succesivamente Internet e le fotocamere digitali, strumenti utili a rendere, apparentemente, tutto più semplice, con la possibilità di pubblicare intere gallerie fotografiche sul proprio sito web. Sì, dico “apparentemente”, perché spesso, pur avendo un sito web personale, si rischiava di essere una goccia nell’oceano e di rimanere per mesi l’unico visitatore di sé stessi. Il social network, infine, ha rappresentato la vera svolta, grazie al tamtam continuo di contatti tra reti di “amici” che condividono in tempo reale immagini, video, commenti. Quella della “Galleria” per me è una nota dolente, ma la colpa è mia. Non ho mai cercato personalmente un mercante d’arte, forse per diffidenza. Non ho mai investito in questa direzione. Però neanch’io ho mai ricevuto le attenzioni di un vero gallerista, nessuno mi ha mai cercato, corteggiato, avvicinato per delle proposte serie. Ciò mi fa pensare che evidentemente il mio “prodotto” non merita l’interesse di una vera galleria d’arte, cosa che non ho ancora accettato pienamente ma non mi lamento, e coltivo la mia passione nella mia piccolissima “nicchia” in cui vivo l’arte serenamente tra la scuola e le “mie cose”, quelle che mi piacciono fare senza tante manie di grandezza. In fondo non ho nemmeno un vero studio,  continuo a dipingere a casa, tra la veranda, il terrazzo  e il soggiorno. Il discorso è diverso se, anziché di gallerie, parliamo di mostre sporadiche organizzate da pseudo-associazioni “culturali”. Noto con tristezza che molti pittori (…e alcuni alunni di “Pittura” me lo confermano) sono contattati da “affitta-muri” che propongono grande visibilità a pagamento, oppure sono invitati da chi, in cambio di denaro, è disposto a pubblicare le foto delle loro opere accompagnandole con bellissime critiche come se si trattasse di attività redditizie. Il mio non è (e non pretende di esserlo) un business. Chi mi conosce sa che accetto volentieri l’invito ad esporre “le mie cose” anche nei buchi più impensabili, ma, come dico ai miei studenti: “Suonate pure gratis, se vi fa piacere, ma non pagate mai per farvi ascoltare”».

Arte e critica. Chi decide davvero il valore estetico di un’opera? Qual è la sua opinione in merito.

«Anche sull’importanza del critico ho i miei dubbi, specie se parliamo di piccole province. Nella mia città ogni settimana si inaugurano tantissime mostre, ma sono curate sempre dai soliti noti. Ai vari vernissage si incontrano ogni sera le stesse persone che spesso, a parte i parenti e le autorità, sono gli addetti ai lavori oppure altri artisti. Ovviamente le osservazioni critiche di queste mostre sono sempre positive perché commissionate. Chi decide davvero il valore estetico di un’opera? Il critico, il popolo, il mercato? Cerchiamo sempre una conferma, ma questa sarà sempre e solo soggettiva, anche quando scaturisce “democraticamente”. Mi ha sempre fatto paura l’idea che “la maggioranza vince”. Mi riferisco alla decisione di promuovere o no un qualsiasi “prodotto” culturale, dal libro al film al quadro. D’altra parte (decontestualizzando in ambito artistico ciò che diceva Franklin), “La democrazia è due lupi e un agnello che votano su cosa mangiare a colazione”. Io, nel mio piccolo, armato di quel po’ di creatività che ho cercato di coltivare negli anni, provo a dire la mia, così, senza l’ambizione oppure la presunzione di essere un artista, esercito (finché mi sarà concessa), la mia libertà d’espressione».

La bellezza potrebbe salvare il mondo sviluppando una progettualità armoniosa sul piano culturale e artistico proiettata verso il futuro, in che modo secondo lei l’arte può educare alla bellezza e migliorare la società?

«Ognuno di noi ha una predisposizione percettiva per l’arte che ci permette di apprezzare un dipinto, un brano musicale o un film. Se così non fosse l’arte, non avrebbe motivo di esistere. La bellezza fine a se stessa non esiste: ciò che può apparirci “bello” è sempre e solo un’opinione soggettiva. Ci sarà sempre qualcuno pronto a considerare “brutta” anche la Gioconda, fa parte del gioco e poi non c’è niente di peggio dell’indifferenza, del silenzio. Ed è proprio il silenzio, a volte, il più grande nemico di chi prova a esprimersi con l’arte senza un’organizzazione alle spalle. Gli stessi media, rispondono alle richieste di una società morbosa, attratta più dal gossip e dalla notizia shock che dal valore culturale di un avvenimento: stormi di giornalisti accorrono immediatamente, senza essere stati chiamati, come avvoltoi, a documentare tutte le sfumature del più piccolo incidente appena accaduto, ma quando si tratta di dare spazio a un evento culturale (mostra, progetto scolastico…) non interviene mai nessuno spontaneamente, bisogna sempre elemosinare per ottenere un trafiletto sul giornale o un servizio televisivo. Quando questa tendenza cambierà e l’interesse non sarà più solo economico o di audience, allora sì, forse, la bellezza avrà la possibilità di salvare il mondo. Per fortuna le maglie della rete Internet sono abbastanza larghe per lasciar passare tutta la bellezza che si vuole. Basta cercarla e cliccare “mi piace”».